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SAYLER: IL DADO E’ TRATTO

In Liguria Diet Sayler è stato più volte, per ragioni d’arte e per scelte personali. Tra il 1983 ed il 1996 a Varcavello nel Ponente vi ha posto anche il suo studio, stringendo care e lunghe amicizie, fra cui quella con Pergiulio Bonifacio, col quale ha esposto insieme diverse volte e col quale si ricongiunge idealmente con questa mostra al CAMeC. Alla Spezia è stato meritoriamente introdotto dalla Galleria “Il Gabbiano” con una mostra personale avvenuta nel 1991. Vivo è ancora il ricordo dell’ installazione “Ligurigrammi” svoltasi a Porto Maurizio nel 1992 e la mostra “Geometrie e tempo” tenutasi nel 2001 nella superba sede di Palazzo Ducale a Genova, non a caso presentata dall’amico artista Bonifacio. La Liguria, tuttavia, non è la sola regione ad essere amata e frequentata dall’autore, che ha avuto sedi prestigiose per far conoscere il suo lavoro in Italia: a Torino (1988, Istituto Alvar Aalto, Museo dell’Architettura), a Novara (1986, Galleria Uxa) e a Milano (1995, Lorenzelli Arte; 1992, Galleria Sesto San Giovanni e Galleria Artecentro). Fra gli ultimi impegni, da ricordare anche la grande mostra nello spazio creativo di “Fortuna Arte” a Messina, “La pittura non mente”, nella primavera dello scorso anno, accompagnata da un pregevole catalogo che invita alla lettura antologica della sua opera. Direi che è stato il caso, proprio quel fato trasformativo e perturbante che agisce dentro il quadro di regole date e che tanto caratterizza il lavoro di Sayler, a muovere i fili che si sono presentati alla Spezia: apparentemente slegati, come singoli elementi, rivelandosi invece protagonisti di una pièce che si stava scrivendo appunto nella rete governata dal ‘caso’. Da un lato, l’attenzione che il Centro spezzino riserva alla pluralità dei linguaggi dell’arte internazionale, proseguendo in questo caso la disamina degli alfabeti astratti che ha già avuto appuntamenti interessanti con Romano Rizzato, Marco Gastini, Klaus Munch, Bruno Querci, Gianfranco Zappettini, dall’altro, gli scambi culturali con la Germania che, per la maggior parte, sono elaborati in relazione al gemellaggio con la città di Bayreuth, giunto con successo al suo primo decennio istituzionale. Proprio a Bayreuth, nell’ambito della riunione di programmazione annuale, è avvenuto l’incontro con Diet Sayler mentre stava organizzando una mostra itinerante che legherà quattro musei della Germania (Bayreuth), dell’Italia, dell’Austria (Graz) e della Romania (Timisoara). La tappa spezzina si è rivelata subito come auspicabile e fattibile. Con Diet Sayler il CAMeC ospita una delle voci più significative dell’astrazione geometrica nel panorama europeo attuale, che affonda le radici nel Suprematismo russo e nell’Arte Concreta tedesca. Lungo questa linea Sayler è pervenuto alla sua personale creazione di elementi oggettivi di base che costituiscono un originale alfabeto di forme che egli ritiene universali. Il bisogno di oggettività e di geometria parte da molto lontano, dalla giovinezza del pittore a Timisoara, come una sorta di rifugio riflessivo e di rifiuto dell’imposizione del realismo socialista da parte del totalitarismo di Nicolae Ceausescu. Per capire il coraggio di questa scelta è necessario calarsi nell’ambiente di Bucarest anni Sessanta, in cui ben poco filtrava delle correnti artistiche contemporanee e in cui scegliere di non seguire le norme figurative imposte dal regime significava resistere alla manipolazione ideologica della realtà e, come conseguenza pratica, trovarsi nella difficoltà oggettiva di non poter studiare o insegnare nelle scuole pubbliche, non poter esporre alle mostre ufficiali, essere sorvegliati occhiutamente dalla Securitate come temuti avversari politici, vivere insomma in una situazione di soggettiva emarginazione ed anche di personale pericolo. Ne sanno appunto qualcosa gli autori apolidi come, fra i tanti altri, André Cadere, Roman Cotosman, Paul Neagu, Diet Sayler, costretti ad espatriare per poter rinascere alla pienezza della vita individuale e creativa, sia pure dopo aver praticato una forte resistenza intellettuale in patria, culminata nel caso di Sayler nella mostra a Kalinderu, Bucarest nel 1968. Sayler emigra a Norimberga nel 1973 e da quel momento prosegue con coerenza le ricerche intorno al costruttivismo più radicale che nulla concede alla facilità del gusto corrente sia della borghesia sia delle masse popolari imbevute in Romania della cultura ideologica di stampo stalinista. Da fuoriuscito sperimenta il riduzionismo cromatico, scegliendo l’opposizione del bianco e nero in chiave di avvicinamento progressivo all’essenzialità. Possiamo leggere questa scelta come un’autocostrizione fondata sul rigore e sulla disciplina, sulla dialettica instaurata fra la concezione mentale dell’opera ed il suo statuto fisico, sul desiderio della ricerca del senso profondo delle cose prima ancora che dello stile, che pure è ragione di per sé sufficiente. Il contesto della privazione della libertà di espressione, in questo caso l’impossibilità di scegliere in Romania fra i linguaggi dell’universo Novecento, è un dato da tenere costantemente in vista: intanto per distinguerlo da quello italiano dove la querelle fra le opposte tendenze fu giocata apertamente anche all’interno del medesimo blocco ideologico, con autori dissenzienti rispetto al richiamo dell’impegno sul versante del realismo sociale, da cui la frattura avvenuta fra gli intellettuali allora aderenti al Partito Comunista Italiano, liberamente vissuta ed elaborata a livello personale, nonché politico e sociale; non secondariamente, per inquadrare la complessità del problema culturale che, in Romania, partiva, da un lato, dalle teorie delle avanguardie russe rivoluzionarie – del Suprematismo e del Costruttivismo, in particolare – dall’altro dalle rivisitazioni formali della tradizione rumena operate da Brancusi, nonché dall’energia ancora viva e operante dei grandi geni, Tzara e Ionesco. Dagli anni Ottanta, tuttavia, la poetica di Sayler cambia registro, orientandosi verso la combinazione di elementi di base che scaturiscono da due aspetti correlati: da un lato, il quadro delle regole stabilite, dall’altro il verificarsi del caso o per dire meglio della possibilità limitata che ha il caso di manifestarsi all’interno di un quadro normativo. L’analogia che Sayler usa spesso per spiegare il concetto è con le sette note musicali, che, pur nella ristrettezza numerica, permettono variazioni compositive infinite. La composizione di spazi e forme attraverso gli elementi di base, come Sayler definisce i suoi grafismi, include le mosse date dall’imprevisto e dal cambiamento. “Il caso è molto di più di un gioco di coincidenze “- egli afferma -; “si lotta contro e con il caso, presenza che fa interrogare, per contrappunto, sulla legge che regola l’armonia del cosmo. Per me è una delle grandi tematiche dell’arte, come l’amore e la morte.” L’installazione studiata per il CAMeC ha per titolo “Fuga ligure” e muove, appunto, da un progetto di intervalli regolari fra i segni basici di sua creazione, disposti in rapporti prestabiliti sia nella linea orizzontale di continuità di visione sia nella loro proporzione. Il numero cinque collega tutti questi rapporti. Il caso interviene esclusivamente nell’inclinazione degli elementi segnici: sono le sei facce del dado, nella sortita del getto, a scegliere le angolazioni progettate dall’autore e a determinare la sequenza effettiva degli intervalli, quella e non altra. Dalla correlazione fra regole e imprevisto, nasce sempre un gioco libero e diverso che, metaforicamente, riscatta la potenza della libertà individuale.

Marzia Ratti Aprile 2010

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Diet Sayler
Fuga ligure
Kuratoren: Marzia Ratti, Eleonora Acerbi