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che dà il nome all’intera mostra, è un titolo che la dice lunga sui pensieri e le letture della Gandolfi, sulla sua capacità di sintetizzare e sussumere idee rivoluzionarie sulla femminilità in immagini semplici all’apparenza, eversive per la loro immediata ricaduta nella realtà. Nella brevità del titolo, ecco affiancati in un solo corpo due mondi distanti: la macchina, il non vivente per antonomasia, il dispositivo complesso esaltato dai futuristi per bellezza e perfezione fredda, l’automa fantasticato nel Seicento e il robot del Duemila, di contro alla perfetta antitesi della madre, il vivente che dà vita, la detentrice assoluta di quella misteriosa “origine del mondo” che molti artisti hanno tentato di raffigurare ossessivamente nell’arte occidentale, non ultimi Gustave Courbet e Marcel Duchamp. Eppure l’invenzione di “Macchina madre” è un sincretismo che comporta anche riflessioni dolorose, visto che: “La concezione del corpo-macchina va messa in relazione a un disinvestimento drammatico nei confronti di ciò che è vivo, della carne ridotta a un insieme di ingranaggi.” (Janine Chasseguet-Smirgel, Il corpo come specchio del mondo, 2003). Infatti, se l’ingranaggio per eccellenza è l’automa, e l’automa è quella cosa che “genera da sé”, senza errore, la madre è colei che genera portando con sé sentimenti ambivalenti. La madre, una fonte mitica che l'artista romana, da sempre, pone al centro della sua ricerca. Non per niente la sua precedente videoopera si intitola proprio “La recherche de ma mère”(2003) una ricerca in cui procedono parallele la dimensione dell’analisi individuale e la dimensione storica collettiva, che incrocia tanto la psicoanalisi post-freudiana quanto i Women Studies e che accomuna le sue posizioni estetiche a quelle di artiste oltre frontiera quali Louis Bourgeoise, Cindy Sherman, Kiki Smith, Tracy Emin, and Jenny Saville..

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Paola Gandolfi
“Macchina madre”